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Brasile, COP 30 a Belém: un’Amazzonia che si mobilita

Bambino indigeno nella foresta amazzonica brasiliana

Dopo la deludente chiusura della COP 29 in Azerbaijan – nazione simbolo della dipendenza dall’industria petrolifera – gli occhi del mondo si spostano verso il Brasile, dove il 10 novembre 2025 si terrà la COP 30, nella città amazzonica di Belém. La conferenza internazionale sui cambiamenti climatici giunge in un momento decisivo, mentre il Pianeta affronta una nuova escalation di eventi estremi, deforestazione, perdita di biodiversità e ingiustizie sociali. E proprio a Belém, cuore verde dell’Amazzonia, le speranze si riaccendono: può essere la svolta, può essere il luogo in cui i popoli si rialzano in nome della Terra.

La COP 29 si è conclusa senza progressi significativi. Nonostante gli slogan e gli appelli all’urgenza, si è assistito ancora una volta a compromessi al ribasso, dichiarazioni vaghe e promesse non vincolanti. Nessun passo decisivo verso una transizione energetica giusta. In questo contesto, la scelta del Brasile – e in particolare della città di Belém – come sede della COP 30 assume un forte valore simbolico e politico. Qui non si parla solo di cambiamento climatico, ma di giustizia climatica. E al centro della scena, stavolta, c’è l’Amazzonia e i suoi popoli.

La COP 30 non sarà solo un appuntamento diplomatico tra capi di Stato e rappresentanti delle multinazionali. Sarà anche – e soprattutto – una grande occasione di mobilitazione popolare. A Belém si stanno già preparando in migliaia: comunità indigene, movimenti sociali, associazioni ambientaliste, organizzazioni religiose e della società civile. Insieme daranno vita alla “Mobilização dos Povos pela Terra e pelo Clima”, un movimento collettivo che intende portare l’anima dell’Amazzonia al centro del dibattito internazionale.

Questa mobilitazione vuole rompere il silenzio, dare voce a chi da sempre protegge la foresta e viene ignorato nei grandi tavoli decisionali. È un grido che si leva dai territori: senza giustizia territoriale non ci sarà mai vera giustizia climatica. Senza ascoltare chi vive e custodisce la biodiversità amazzonica, ogni politica ambientale rischia di restare una vetrina, un’altra operazione di greenwashing.

In prima linea nella preparazione a questa mobilitazione c’è il Centro Alternativo de Cultura (CAC) dei gesuiti del Brasile, una realtà da anni attiva nel cuore dell’Amazzonia. Il CAC, fondato nel 1991 a Belém nello Stato del Parà, non è solo un centro di resistenza culturale e sociale, ma un laboratorio di umanità. Promuove la difesa delle culture tradizionali, la dignità delle comunità indigene e la costruzione di un modello di sviluppo alternativo, fondato su cooperazione, ecologia integrale e partecipazione attiva.

Il progetto Far Fiorire la ReEsistenza e l’Autonomia per una giustizia climatica in Amazzonia brasiliana” è uno degli esempi più emblematici dell’impegno del CAC. L’iniziativa, gestita dalla Fondazione MAGIS e cofinanziata dalla Conferenza Episcopale Italiana, promuove l’identità e l’autodeterminazione delle popolazioni amazzoniche attraverso educazione, artigianato, economia solidale e formazione comunitaria. Sono organizzate attività socio-culturali e educative per bambini e adolescenti e vengono offerti percorsi di formazione e sostegno alle donne, che ricevono strumenti per creare forme di sostentamento attraverso l’artigianato locale, riscoprendo saperi antichi come risorsa economica e culturale. È una proposta che parte dal basso ma guarda lontano, perché fonda la trasformazione globale sulle radici delle comunità.

Belém non è una scelta casuale. È un crocevia di resistenza e speranza, una città densa di storia e contraddizioni, un porto sul fiume e sulla foresta, punto d’incontro tra le culture indigene e le sfide del mondo contemporaneo. Qui si incrociano le ferite lasciate dall’estrattivismo e le speranze di rinascita. Per questo, la COP 30 non può essere una semplice passerella: deve diventare uno spazio di ascolto, dove le voci locali entrano nei tavoli di trattativa e si traducono in politiche globali.

Il rischio è che, come troppo spesso accade, anche questa conferenza venga cooptata dagli interessi finanziari. Che si parli di clima, ma si agisca per il profitto. Che si celebri la foresta, ma si continui a distruggerla. Per evitarlo, la mobilitazione è fondamentale. La presenza attiva dei movimenti dal basso può fare la differenza, trasformando la COP 30 in un vero momento di svolta.

La crisi climatica non è solo ambientale: è sociale, culturale, politica. È il riflesso di un modello di sviluppo che consuma la vita in nome della crescita. Per questo, la COP 30 deve rappresentare più di un summit: deve essere l’inizio di un nuovo paradigma. Un paradigma che metta al centro la giustizia sociale, il rispetto per le culture ancestrali, la difesa dei beni comuni e il valore delle interdipendenze tra i popoli.

Il Brasile può giocare un ruolo chiave in questa transizione. Non solo perché ospita una delle più vaste aree di biodiversità del mondo, ma perché può proporre – attraverso esperienze come quella del CAC – un’altra visione dell’umanità e della convivenza con la Terra. Un mondo in cui la foresta non è una risorsa da monetizzare, ma una maestra da cui apprendere. Dove lo sviluppo non si misura solo in PIL, ma in relazioni, salute degli ecosistemi, autonomia dei territori e benessere delle comunità.

La scelta è ora. La mobilitazione è già cominciata. Nelle scuole, nei villaggi, nei mercati artigianali, nei centri culturali dell’Amazzonia. La COP 30 sarà un banco di prova per tutti: istituzioni, società civile, opinione pubblica globale. Sarà il momento per decidere se continuare a essere spettatori di una crisi annunciata o diventare protagonisti di una rivoluzione ecologica e sociale.

Come ricorda il CAC, “far fiorire l’umanità” non è un’utopia, ma una responsabilità condivisa. A partire da Belém, possiamo seminare un futuro diverso. Tocca a noi irrigarlo con coraggio, partecipazione e speranza.

Articolo di Gianleonardo Latini apparso sulla rivista Gesuiti Missionari Incontri n. 113 (GMI)

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