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MAGIS Diritti fondamentali Il vescovo Bizzeti: «La Turchia, terra di mezzo»
Turchia,

Il vescovo Bizzeti: «La Turchia, terra di mezzo»

Il vescovo Paolo Bizzeti è un gesuita fiorentino, vicario apostolico in Anatolia (Turchia) dal 2015. La sua diocesi si estende dal Mediterraneo al Mar Nero e attraverso le sue parole e i suoi racconti si può tracciare un ritratto della Turchia fatto di contraddizioni e generosità, tipiche di un paese che da sempre è una terra di mezzo.

La Turchia geograficamente e politicamente occupa una posizione particolare. Parlando della guerra in Ucraina, qual è il suo ruolo rispetto alla Russia?

La Turchia è pienamente coinvolta in questa guerra per vari motivi, prima di tutto il fatto che c’è un interesse comune e potenzialmente conflittuale tra Russia e Turchia per il Mar Nero. Non c’è dubbio che la Russia ha un grosso interesse a espandere la propria influenza sulle rive di questo mare e quindi, oltre alla Crimea, Odessa è un porto che fa molta gola. Ma questo entra potenzialmente in conflitto con gli interessi della stessa Turchia che ovviamente è molto interessata a mantenere una sua posizione nel Mar Nero.

E invece il rapporto con l’Ucraina?

La Turchia ha cercato anche di essere mediatrice tra Russia e Ucraina in conflitto, ma la mediazione è molto difficile perché ci sono grossi interessi in ballo. La Turchia fa quello che può: per esempio per quel che riguarda l’embargo stabilito dalla Nato, la Turchia è in una posizione molto delicata e quindi ha aderito solo in parte. Un esempio visibile: gli yacht russi prima ormeggiati nei porti italiani ora si trovano nei porti turchi, d’altra parte è interesse della Turchia avere dei buoni rapporti anche con gli ucraini. L’interscambio commerciale che c’è tra Turchia e Russia e Turchia e Ucraina è considerevole. Basta guardare al turismo per avere un’idea di come girava l’economia tra questi paesi: prima del Covid c’erano in Turchia 10 milioni di turisti russi e due milioni di turisti ucraini, quindi grossi introiti e grosse opportunità. La Turchia si trova in questa ricca e complessa posizione da millenni: un paese di transito, una terra di mezzo. Cerca quindi di mediare per poter tornare a una situazione tranquilla.

Essendo appunto terra di confine, qual è la situazione dei profughi?

Ci sono molte milioni di profughi nel Paese, adesso anche dall’Ucraina, ma arrivano anche dalla Russia, soprattutto giovani che non se la sentivano di andare in guerra e sono venuti in Turchia a cercare riparo.

Quest’anno ricorrono cento anni del trattato di Losanna. È un trattato che tocca da vicino la vita di tutte le comunità minoritarie non musulmane residenti in Turchia. Sono maturi i tempi per cambiare qualcosa?

I cristiani non sono perseguitati come in altri Paesi, penso all’Iran e all’Afghanistan, ma hanno alcune difficoltà. Tutto è congelato dal trattato di Losanna e questo impedisce, ad esempio, che si costruisca una chiesa, un centro giovanile o un centro culturale e sarebbe auspicabile a distanza di un secolo una revisione del trattato anche perché la Chiesa cattolica non ha personalità giuridica e questo pone dei grossi problemi, delle limitazioni.

Alla luce di questo, qual è la situazione dei rifugiati cristiani?

I rifugiati cristiani sono una minoranza in un paese a stragrande maggioranza musulmano: è chiaro che c’è una difficoltà nell’inserimento, anche se la Turchia è stata molto generosa nell’accoglienza. Va dato atto alla Turchia che mentre le porte dell’Europa sono chiuse, le porte della Turchia sono state aperte e generose nei confronti di chi scappava dalla guerra, l’Iraq prima, la Siria dopo, ma anche da regimi dittatoriali pesanti come l’Afghanistan e l’Iran. Quindi alla Turchia va riconosciuto questo grande merito di aver accolto oltre quattro milioni di rifugiati che però desideravano attraversare la Turchia e raggiungere l’Occidente. Le porte dell’Occidente sono chiuse e la Turchia si trova nel difficile compito di gestire tutta questa massa di persone. I problemi dei cristiani riguardano l’impossibilità di costruire qualche piccolo luogo di culto (basterebbe una sala con accesso pubblico), di ritrovo, un centro culturale, un centro giovanile ecc.: questo non è possibile perché avendo lo statuto di “rifugiato” in teoria sono persone “di passaggio”, anche se ci sono persone che sono lì ferme da dieci anni e di fatto i giovani sono in una pericolosa situazione di stand by. Sarebbe auspicabile creare delle politiche a doppio binario, che diano possibilità di uscire dal paese a chi lo richiede, ma anche di integrazione a chi ormai vuole restare: ci sono famiglie che si sono trovate bene in Turchia e desidererebbero anche rimanere, ma dovrebbero avere uno statuto che le riconosca e la possibilità di esprimere la loro fede.

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