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MAGIS Notizie Sinodalità e responsabilità: fede e giustizia
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Sinodalità e responsabilità: fede e giustizia

Un paio di mesi fa, durante la mia ultima visita in Sri Lanka, P. Aloysius Pieris – noto teologo gesuita con i suoi novant’anni ben portati – al termine di una delle nostre consuete conversazioni teologiche ed esperienziali, mi ha donato un suo libretto dal titolo “Relishing Our Faith in Working for Justice” che mi piace qui tradurre così: “Gustare la nostra fede e lavorare per la giustizia”.
È in effetti la sintesi perfetta della conversazione di quel giorno che verteva proprio sul come vivere l’esperienza di Chiesa in Asia e nel mondo in un tempo di grandi cambiamenti, incertezze, sfide tecnologiche e conflitti che aumentano le povertà e le distanze tra ricchi e poveri. Per non parlare dei fondamentalismi religiosi che, uniti ai nazionalismi, stravolgono la stessa dimensione e tradizione religiosa pacifica di tanti Paesi. Abbiamo tanto da imparare dal cammino di testimonianza della Chiesa in questo immenso continente dove il cristianesimo è minoranza e talvolta osteggiato e perseguitato. La testimonianza della fede in Cristo si gioca proprio sul piano della giustizia, perché la giustizia non è solo frutto di una legge umana, di diritti umani da elaborare ed applicare, ma dell’amore di Dio e di Cristo rivelatosi pienamente nel mistero pasquale. Bisogna riscoprire le radici bibliche del rapporto tra fede e giustizia e il legame profondo tra l’annuncio del Vangelo e il servizio ai poveri.

Il Concilio Vaticano II, introducendo un linguaggio nuovo, espressione di una dimensione dialogica della missione della Chiesa nel mondo, ed interrogandosi sulle questioni del nostro tempo, ha ridato impulso alla riflessione della Chiesa e alla opzione preferenziale per i poveri come scelta fondamentale, come vocazione che si traduce nell’essere Chiesa dei poveri, Chiesa per i poveri, e come affermato da Papa Francesco: «una Chiesa che sia ricca di Gesù e povera di mezzi; […] una Chiesa che sia libera e liberante».

Sono stato incuriosito dal richiamo particolare di Pieris ad un documento del Sinodo dei Vescovi del 1971 sul tema “La giustizia nel mondo”. Leggendolo, l’ho trovato sorprendentemente attuale. In quel Sinodo, durante il pontificato di Paolo VI, la Chiesa prendeva maggiore consapevolezza di sistemi oppressivi e ingiusti del mondo contemporaneo, della sua vocazione e della necessità degli uomini e delle donne cristiani di una profonda conversione in vista del compimento del disegno di Dio per la salvezza dell’umanità. Per cui non regge più alcuna giustificazione teologica di strutture oppressive di potere, anche se approvate democraticamente. In maniera inequivocabile il documento assumeva toni profetici sul rapporto fede-giustizia. La giustizia scaturisce dalla fede, mette in pratica la fede e non la riduce ad una “recitazione” passiva di dogmi. Dovremmo essere capaci di raccogliere e rinnovare questo rapporto fede-giustizia con più coraggio anche oggi all’interno delle riflessioni in corso nel Sinodo sulla sinodalità, stimolando le comunità cristiane, i singoli cristiani e quelli particolarmente impegnati in politica. In questo
ambito soprattutto si dovrebbe alimentare ciò che è venuto meno negli ultimi decenni: la coerenza tra il dichiararsi “cristiani” e il vivere concretamente gli insegnamenti evangelici della dottrina della Chiesa, al di là degli interessi specifici dei partiti o di altri gruppi di potere. Per cui, la profezia in vista della giustizia, dovrebbe avere un posto anche nella sfera politica al fine di alimentare i contenuti dell’etica pubblica, ma, come dimostra l’esempio di Cristo, lottare per la giustizia presenta sempre un conto da pagare.

Il documento inoltre non mancava di denunciare una “crisi di solidarietà internazionale”. Tale crisi, con scenari certamente diversi da quelli di mezzo secolo fa, resta tuttora aperta, ancor di più oggi con l’aumento dei conflitti e delle difficoltà degli organismi internazionali come quelli delle Nazioni Unite preposti a contrastare le politiche egoistiche ed egemoniche dei Paesi più potenti della terra. Ciò richiede, da parte di tutta la Chiesa, una responsabilità della giustizia nel mondo che trova il suo fondamento nella fede in Gesù Cristo. Anzi, proprio l’attuale situazione dovrebbe aiutarci a ritornare alle sorgenti della fede cristiana, a riscoprirla e rigustarla in relazione ai bisogni di un’umanità sofferente e bisognosa di liberazione, perché l’amore non può essere disgiunto dalla giustizia. Entrambi si richiamano vicendevolmente in un movimento circolare: «Il cristiano vive sotto la legge della libertà interiore, ossia nella vocazione permanente alla conversione del cuore tanto dalla sua autosufficienza di uomo verso la fiducia in Dio, quanto dal suo proprio egoismo verso l’amore sincero del prossimo. È così
che si verifica la sua autentica liberazione e la donazione di sé per la liberazione degli uomini».

Le Chiese asiatiche hanno fatto proprio questo indirizzo che intende ascoltare il grido dei poveri, promuovendo una missione di dialogo a partire dagli ultimi e secondo la loro prospettiva. Un esempio per tutta la Chiesa universale in cammino.

Articolo di Ambrogio Bongiovanni, presidente Fondazione MAGIS

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