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Opera missionaria della Provincia Euro-Mediterranea dei gesuiti
MAGIS Educazione Bongiovanni: «È la missione che fa la Chiesa»
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Bongiovanni: «È la missione che fa la Chiesa»

È la missione che fa la Chiesa. La trasforma. La apre. La porta vicino agli uomini, siano essi cristiani o non cristiani. È la missione che fa della Chiesa una «Chiesa in uscita», come predica da anni papa Francesco. Ambrogio Bongiovanni, docente di Teologia del dialogo interreligioso e Teologia della missione presso la Facoltà di Missiologia della Pontificia Università Urbaniana e la Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale (Sez. San Luigi) di Napoli e membro del consiglio di amministrazione della Fondazione Magis, ribalta lo sguardo verso la missione. Non più mezzo di proselitismo e arma in mano ai colonialisti, ma strumento in mano a Dio per far conoscere il suo amore a tutti gli uomini. Bongiovanni ne ha parlato insieme a Gianni Colzani, Agnes de Dreuzy, Leo D. Lefebure nel libro «Mission Makes the Church» (Aracne, Roma, 2017, pp. 232), curato da Fabrizio Meroni. Volume presentato in due incontri che si sono tenuti ad aprile e a maggio a Roma (Pontificia università Gregoriana) e a Napoli (Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia meridionale – Sez. San Luigi).
Ambrogio Bongiovanni, perché la Chiesa dev’essere missionaria?
La missione non è la missione della Chiesa, ma più propriamente la missione di Dio (Missio Dei) che si realizza attraverso la Chiesa. E, quando parliamo di missione di Dio, intendiamo la comunicazione del suo amore per l’umanità, quindi missione di amore. La Chiesa dunque è segno vivo di questo amore per tutti gli uomini e popoli, da mettere in pratica. Questa definizione di missione ci aiuta anche a superare l’idea di vedere l’«altro» come «oggetto» dell’azione missionaria. Gli altri non sono «oggetti», ma «soggetti» che incontrano l’amore di Dio, attraverso l’azione dei missionari e della Chiesa, che si lasciano incontrare da Dio e che desiderano comunicare ad altri l’esperienza profonda di questo incontro. La Chiesa quindi non può non essere missionaria, perché fondata da Cristo Gesù che agisce nel mondo attraverso il suo Spirito per la salvezza di tutti. In questo senso la salvezza non appare come un concetto teorico o astratto, ma come qualcosa che si traduce sul piano esistenziale perché legato all’amore di Dio. Quindi, ripeto, la missione non è una «proprietà» della Chiesa. La Chiesa è mossa dalla Missio Dei. Da tutto ciò credo trae origine il titolo del libro: è la missione che fa la Chiesa, non viceversa.

Com’è cambiato il concetto di missione nell’ultimo secolo?
È cambiato soprattutto nel rapporto con le persone. È mutato il modo di guardare i soggetti della missione. L’idea missionaria basata sul proselitismo, cioè sull’allargamento del gruppo dei cristiani, della Chiesa, viaggiava insieme alla «missione civilizzatrice» propria del colonialismo. Nel concetto di civilizzazione era infatti compreso quello della cristianizzazione. In questo contesto, gli altri e i popoli erano considerati un oggetto, un terreno di conquista. Oggi, invece, la missione guarda all’altro come a una persona libera con la quale entrare in relazione e attivare un annuncio della buona notizia che è dialogico e mai impositivo. Perché Dio ci ama come esseri pienamente liberi.

In questa nuova visione della missione, il Concilio Vaticano II ha rappresentano un passaggio importante…
Il Concilio Vaticano II è stato un luogo privilegiato e straordinario di confronto e di azione dello Spirito. Al Concilio si è giunti con una riflessione sul concetto di missione già in corso. I padri conciliari e i teologi non sono arrivati al Concilio sprovveduti, ma con un bagaglio di riflessioni ed esperienze già avanzate. Il Concilio è stato poi un luogo in cui i vari contesti culturali e religiosi e le Chiese locali, cioè i luoghi in cui l’azione missionaria ad gentes si è sviluppata e ha prodotto i suoi effetti, hanno potuto esprimersi liberamente e ampiamente. Gli stessi padri conciliari non erano più solo europei, ma provenivano da tutti i continenti e quindi portavano con sé una visione diversa da quella occidentale. E anche Giovanni XXIII, il papa che ha convocato il Concilio, si portava dietro esperienze vissute da vero missionario come delegato e nunzio apostolico in Bulgaria, Francia e Turchia ed era consapevole dei cambiamenti in corso. Partendo da questo bagaglio di esperienze, il Concilio ha preso atto dei cambiamenti in corso e del nuovo modo di concepire la missione con l’idea di doversi confrontare con il mondo. Paolo VI, continuando la visione di Giovanni XXIII, durante i lavori conciliari promulgò «Ecclesiam Suam» un’enciclica che sul mutato rapporto tra Chiesa e mondo. A mio parere, pur non essendo un’enciclica prettamente missionaria, ha forti contenuti missionari perché sottolinea come la Chiesa debba raggiungere tutti gli ambiti del mondo attraverso un approccio dialogico per comunicare il messaggio di Amore di Dio. Traccia cioè il quadro di una Chiesa che è pienamente nel mondo (ma non del mondo) e che ha il compito di avviare «un colloquio di salvezza» con tutte le realtà del mondo, a partire dall’impegno ecumenico con le Chiese cristiane, per proseguire con i credenti in Dio e per finire con le altre dimensioni umane (a quel tempo la Chiesa era preoccupata per la diffusione dell’ateismo). E molto bella quell’espressione del Papa in Ecclesiam Suam che così recita: «la Chiesa si fa parola». Qui si parla di una Chiesa che si fa messaggio con-e-per gli altri. Si fa cioè portatrice del messaggio di Dio che è, torno a ripeterlo, un messaggio di amore.

Come si è evoluto il concetto di missione e quali sono i suoi pilastri?
Il pontificato di Giovanni Paolo II ha ridato forza all’impegno missionario sia ad intra che ad extra grazie anche all’enciclica «Redemptoris Missio». Oggi papa Francesco usa il termine «Chiesa in uscita», una «Chiesa con le porte aperte». Nella Chiesa c’è quindi una constante attenzione verso l’incontro con l’altro e con i popoli. Rimane però il problema di come tradurre questi principi dottrinali nell’attività pastorale. Si è spesso fermi sul concetto di identità e di una Chiesa locale come «presidio» della specificità cristiana, in maniera forse «conservativa». La Chiesa locale dovrebbe invece preoccuparsi di essere una realtà capace di guardare al proprio contesto particolare in relazione a contesti più ampi. Una realtà che viva una responsabilità verso il mondo intero. Le nostre realtà infatti sono interdipendenti. Molti affermano: perché andare fuori quando abbiamo tanti problemi da risolvere in casa? In realtà, la missione principale della Chiesa non è risolvere i problemi. La risoluzione dei problemi è solo parte del suo compito, ma non quello principale. Dietro l’aiuto materiale dev’esserci una chiamata a essere con e per le persone, ad ascoltare, annunciare e dialogare, in virtù del mandato della Chiesa di farsi Parola. La traduzione di ciò nella parte pastorale è, tuttavia, a mio avviso, ancora carente. Per non parlare della formazione teologica in cui manca tuttora un sufficiente impulso sulla specificità di questo mandato missionario. Se non investiamo risorse nella formazione alla missione e al dialogo, rischiamo di vanificare il grande lavoro fatto in questi anni a livello teologico e di non far maturale le comunità in questa dimensione costitutiva della Chiesa.

Qual è il ruolo del dialogo interreligioso?
C’è stato (e forse c’è ancora) un lungo dibattito sul rapporto tra missione e dialogo interreligioso: il dialogo prende il posto della missione? Missione e dialogo sono ambiti diversi? Anche se la Chiesa ha separato, per ragioni organizzative, la Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli e il Pontificio consiglio del dialogo interreligioso, ritengo che il dialogo sia parte integrante della missione e che essi non vadano disgiunti. Ovviamente il dialogo ha dinamiche e peculiarità proprie, ma penso al dialogo come parte dell’unico progetto di Dio «che vuole tutti gli uomini salvi». Il dialogo con le altre fedi è un percorso di ricerca della Verità inserito in quel cammino dell’umanità verso Dio. Nella dichiarazione «Nostra Aetate» si parla della ricerca e del riconoscimento nelle altre tradizioni religiose quanto c’è di vero e santo. È un percorso di discernimento che parte da quell’ansia missionaria di cui abbiamo parlato prima. Come faccio a scoprire quanto di vero e santo c’è nella altre fedi se non mi muovo dal mio contesto, se resto fermo nella mia posizione e visuale? Se non mi pongo in un atteggiamento di apertura e cioè in uno stato di «missione»? Io uso sempre questo esempio per i miei studenti. Se vivo in una casa bella e confortevole ma con le porte e le finestre chiuse, quando sento dei suoni o rumori dall’esterno o dalla strada, per sapere di che cosa si tratta devo aprire porte e finestre. Se non lo faccio, continuerò a sentire solo rumori e suoni estranei che non mi appartengono, ma non saprò mai che cosa realmente stia avvenendo fuori. Per non perdere l’occasione di scoprirlo, bisogna aprire le finestre e affacciarsi su quella realtà. Uscire fuori per mettersi in una posizione di ascolto, attraversare le diversità per incontrare. La Chiesa deve aprirsi al mondo per scoprire, per andare incontro agli altri e per scoprire quanto c’è di vero e santo insieme, discernendo il bene da tutto ciò che l’ostacola o gli si oppone. Sono contento nel sentire quanto siamo incoraggiati in questa visione da Papa Francesco.

Su quali terreni ci può essere un incontro?
I terreni sono molti, ma bisogna chiarirsi anche sui termini. Io credo che il rapporto profondo con gli altri passi prima di tutto attraverso una conversione personale a Dio. La sete di Dio porta a una ricerca comune della Verità. Questa ricerca può trovare diversi terreni. Ho lavorato con hindu, musulmani, buddhisti su progetti di studio, attività sociali, ecc.. La stessa dichiarazione «Nostra Aetate»incoraggia tutti ad attivare percorsi di collaborazione per il bene comune sulla base di stima reciproca e di una consapevolezza di un’ origine e un destino che accomuna tutti gli uomini. Tutt’altro approccio rispetto a quanto mi capitò al mio rientro la prima volta dall’India. Incontrai un amico sacerdote che mi chiese quanti hindu io e mia moglie avessimo condotto al Battesimo durante il nostro primo lungo soggiorno. La mia risposta fu: nessuno. E cercai di spiegargli la complessità della questione. Ma io rimasi sorpreso e rattristato dalla sua domanda. Non perché non dessi importanza al battesimo ma perché dietro quella domanda c’era una concezione antica della missione ed una cattiva interpretazione del dialogo che forse tuttora permangono.

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