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MAGIS Diritti fondamentali Salute in Ciad, un affare di famiglia
Ciad,

Salute in Ciad, un affare di famiglia

Famiglie dei pazienti

Riportiamo la testimonianza di Sabrina Atturo, Responsabile progetti MAGIS, attualmente in Ciad per la gestione di un’iniziativa di supporto al Complesso Ospedaliero Le Bon Samaritain di N’Djamena in Ciad.

Eveline non è un nome di fantasia bensì il nome della mia nuova amica che per un po’ soggiornerà presso l’Ospedale Bon Samaritain a N’Djamena, in Ciad. Eveline è una giovane ventenne, uno scricciolo di donna molto alta e fiera, dell’etnica Sao; pesa soltanto 38kg perché l’HIV è entrato violentemente nel suo corpo e l’ha fortemente debilitata. Ho conosciuto Eveline grazie a Carlos, un giovane gesuita e medico spagnolo che l’ha visitata e fatta ricoverare d’urgenza. Eveline appartiene ad una famiglia fragile e vulnerabile, non ha più i genitori e i suoi fratelli fanno i salti mortali per sfamarla ma ci sono e non l’hanno mai abbandonata nonostante le difficoltà. Certo, possono garantirle soltanto il minimo: un pasto al giorno con bouille, riso con pollo o pesce; lo Stato le garantisce i medicinali ma la sua dieta è povera per cui il suo corpo non riesce a recuperare bene le forze.

Quando Carlos me l’ha presentata il mio senso materno è prevalso e così, toccata nel profondo, ho preso un impegno tutto mio e personale: trascorrere qualche ora della mia giornata accanto a lei. Inutile dire che sono arrivata da lei con tutto il mio background sulle persone sieropositive fatto di solitudine, stigma, esclusione, lei sola nella stanza, casseruole sempre vuote di cibo, le due solite maglie che si alternano ogni giorno. Se mi fossi fermata ad un saluto veloce ogni pomeriggio avrei ancora le mie convenzioni.

Invece qualcosa è successo nel profondo e così, prendendo il giusto tempo ma soprattutto lasciandomi toccare dai suoi occhi pieni di vita, una nuova realtà sociale si è manifestata ai miei occhi: ho conosciuto una sorella maggiore che lavora tutto il santo giorno al mercato ma la sera, prima di tornare a casa, passa da lei e le porta un boccone di pane (negli ospedali in Ciad non c’è il servizio mensa, è la famiglia che porta il cibo al paziente); Eveline è talmente simpatica e chiacchierona che conosce tutto il reparto, appena sente dei passi arrivare dal corridoio si volta verso la porta e saluta, dice qualcosa in arabo che non capisco e tutti i parenti dei pazienti ricoverati entrano e la salutano; la mattina e il pomeriggio esce per fare una passeggiata all’esterno del reparto e trova sempre qualcuno che la invita a sedere sul “tappetto di famiglia”; se è l’ora dei pasti e lei non ha nulla, tutti condividono con lei i loro “cinque pani e due pesci”.

Sicuramente fuori dell’ospedale la vita di Eveline non è semplice. Soffre lo stigma sociale, non può lavorare, non è inserita pienamente nella vita sociale, è una donna povera e sieropositiva ma qui in ospedale è rispettata, ascoltata e supportata, per quanto possibile, dalla sua famiglia, dal personale sanitario e dagli stessi ciadiani… e questa solidarietà mi riempie il cuore nonostante le povertà materiali.

In Ciad il diritto alla salute non è garantito; occorre pagare tutto, non c’è un servizio nazionale sanitario che si occupa dei più poveri, tutto è a carico del paziente e ogni giorno ascolto le difficoltà che hanno le persone per accedere alle cure….ma quello che imparo da loro è che se stai male, un rete sociale prova a supportarti sempre, con il poco che ha, perché la tua salute è un affare di famiglia.

Un medico ciadiano che ha vissuto 12 anni in Italia mi ha detto un giorno davanti un caffè: “Cara Sabrina, qui in Ciad la salute è un affare di famiglia a differenza dell’Europa che è sempre più un affare individuale. Quando visito qualcuno non è il paziente che risponde alle mie domande ma è il membro della famiglia che è sempre presente durante le visite: il marito per la moglie, il fratello maggiore o il papà per il figlio, e quando qualcuno viene ricoverato, la famiglia si riunisce e organizza i turni per essere accanto al malato, almeno in due-tre alla volta”. Le donne preparano il cibo per tutti; vanno al mattino in ospedale, stendono il tappeto negli spazi comuni, il paziente esce e si siede con loro (nessuno qui sopporta gli spazi chiusi di un ospedale – in Ciad si vive all’esterno della casa non dentro le mura!) e si condivide il pasto, le chiacchere con i “vicini di tappeto”. Di tanto in tanto passano anche gli uomini, più indaffarati con il lavoro ma comunque amici e parenti non mancano mai di fare una visita….una rete sociale viva, semplice e concreta, che supporta il malato!

E noi invece? Non abbiamo neanche più il tempo di far visita ai nostri parenti e amici ricoverati, affidiamo sempre più la presa in carico dei malati alle assicurazioni e alle associazioni di volontariato. Siamo davvero padroni del nostro tempo oppure ne siamo soltanto vittime? e così torna alla mia mente il romanzo di Michael Ende, Momo: “perché voi avete occhi per vedere la luce, e orecchie per sentire i suoni, così avete un cuore che percepisce il tempo. Ma purtroppo, ci sono cuori ciechi e sordi che, anche se battono, non sentono…”.

E così, nella semplicità di una condivisione, Eveline e io vi salutiamo dal Ciad, insieme al nostro tempo donato reciprocamente in cui ascoltiamo musica, vediamo ogni giorno le foto del suo medico di fiducia Carlos (che intanto è tornato in Spagna), in silenzio le massaggio le parti del corpo più doloranti, lei si rilassa e la mia vita qui si arricchisce di senso.

Sabrina Atturo
N’Djamena, 25 luglio 2021

Puoi sostenere le esigenze degli ospedali in Ciad con una donazione su https://bit.ly/39mbPKF

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