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MAGIS Educazione “Diario dal Brasile”, Marzo. Simone Garbero racconta Belém, le donne e i martiri
Brasile,

“Diario dal Brasile”, Marzo. Simone Garbero racconta Belém, le donne e i martiri

Simone Garbero, classe 1998, è un volontario della Fondazione Magis partito da Torino alla fine di Gennaio per una missione di sei mesi in Brasile. Simone è accolto e guidato in un percorso di formazione integrale dal Centro Alternativo di Cultura (CAC): è un volontario dell’equipe di lavoro e si sta occupando di comunicazione. La Fondazione MAGIS è presente in quest’area con il progetto “Reti di economia solidale delle donne in Amazzonia” e con il Sostegno a Distanza (SaD).
Come spesso accade, chi va per aiutare, scopre di ricevere più di quanto possa donare e le parole che Simone ha inviato a membri e collaboratori della Fondazione Magis attraverso whatsapp durante la sua esperienza in Brasile racchiudono il senso di un’esperienza che spalanca gli occhi e il cuore.
La potenza dei suoi racconti è tale da averci fatto pensare di condividerla con amici e sostenitori della fondazione Magis. Nella rubrica “Diario dal Brasile” vogliamo mensilmente raccogliere i messaggi che Simone scrive con lo stile del diario quando qualcosa di ciò che vive lo colpisce particolamente.

Il diario dal Brasile. Marzo

Dal Parà, n.4.CITTA’. Nella testa di noi italiani, andare in Amazonia evoca immagini selvagge, indigeni con frecce avvelenate e bestie feroci. Quello che sto capendo poco per volta è che l’Amazonia è molto più complessa del nostro stereotipo. C’è, è vero, la foresta enorme e selvaggia, punteggiata di minuscole comunità e spero prima o poi di riuscire a vederne qualcosa, che la gente chiama in modo indefinito “l’interior”.

Per ora però la mia esperienza è di un’Amazonia metropolitana, una grande città in cui non c’è nulla di eroico se non muoversi nel traffico e nessuna bestia feroce se non il leopardo del giardino zoologico, eppure anche questa è Amazonia, gli abitanti si sentono fieramente Anazonidi e la maggior parte di loro proviene davvero da quell'”interior” di foresta.

Belém è più che raddoppiata negli ultimi 50 anni, quando moltissime famiglie che abitavano in piccole comunità rurali si sono spostate in città attratte dalla speranza di “fare fortuna” o spinte dalle grandi aziende agricole che hanno cacciato molti piccoli agricoltori dalle loro terre o ancora spinti dalla degradazione ambientale che ha reso improduttiva le lor terre e inquinato i fiumi della cui pesca vivono le comunità della foresta. Il problema è che la maggior parte delle famiglie immigrate in città hanno trovato condizioni di vite ben peggiori di quelle che avevano all’interno: piccoli lavori precari e piccole abitazioni. Al contrario delle comunità rurali in cui per lo più c’è una piccola economia di sussistenza, ma le abitazioni, se pure semplici, sono più grandi e soprattutto hanno spazi aperti di orto-giardino che in città mancano del tutto.

Nel tempo c’è chi l’ha chiamata la “Venezia brasiliana”, per i suoi molti canali o la “Parigi brasiliana”, per l’architettura bell’epoque che caratterizza il centro storico. Oggi è un grande agglomerato con 1,5 milioni di abitanti all’interno del comune e in tutto 2 milioni contando anche gli altri comuni dell’area metropolitana, lievitato in fretta negli ultimi decenni, senza un vero e proprio piano urbanistico. Penso che guardare come è fatta la città sia indicativo della vita e della società qui.

Anche se Belém è grande, lo spazio per abitare non è mai abbastanza: a differenza di una grande città italiana, la maggior parte delle case è a uno o due piani. Non è una scelta urbanistica: le famiglie normali non hanno i soldi per costruire case più alte. Quindi una densità abitativa bassa (1/6 di Torino, 1/8 di Napoli) e lo spazio non basta mai: il risultato è una forma tipica di crescita di Belém, le occupazioni. La logica è semplice: la mia famiglia ha bisogno di una casa, ma non ha i soldi per affittare o comprare una casa già costruita, né per comprare terreni edificabili in città perché non c’è spazio, così con un gruppetto i famiglie costruiamo un gruppo di casette di legno e lamiera ai margini della periferia, occupando un terreno. È la storia della maggior parte dei quartieri periferici: capita che con il passare dei decenni l’occupazione viene “legalizzata”, arrivano gli allacci a corrente e acquedotto e poco per volta le casette di legno lasciano il posto a casette di mattoni. Da ultimo, molto da ultimo, arriva l’asfalto e forse la fogna (anche se il concetto di fogna qui è molto fantasioso). Lascio immaginare la forma che assume una città cresciuta in questo modo…

Un’ulteriore elemento importante da tenere in considerazione è la pioggia: già di per sé non sarebbe una città facile da progettare, per far defluire tutta l’acqua che cade quotidianamente dal cielo. In centro le strade sono asfaltate, più alte al in mezzo e ai lati corrono due fossi profondi e comunque molto spesso la strada si allaga. Nelle periferie le strade sono fangose e durante l’inverno l’acqua entra quasi tutti i giorni. Per questo le case più povere hanno tutto custodito in sacchi di nilon legati alle travi del tetto.

Questo panorama urbano piatto e decisamente casuale, viene drasticamente rotto nella zona centrale (dove abito io): qui negli ultimi 15 anni crescono come funghi alti e sottili grattacieli residenziali in cui abitano le famiglie danarose. Loro i soldi ce li hanno per costruire edifici alti. Il risultato? Che molte famiglie vengono cacciate dalle loro case perché lì si vuole costruire un grattacielo e vengono spinte in periferia.

Dal Parà, n.5. – DONNE. Quello che incontro ogni giorno è un universo femminile: gli uomini ci sono, occupano le posizioni formali di potere in una società che mi raccontano essere maschilista, ma di fatto nella maggior parte degli incontri che mi capitano qui, sono le donne ad essere in primo piano, nella vita delle comunità e delle famiglie.

In questi giorni stiamo incontrando varie comunità per la programmazione delle attività di educazione popolare con bambini e adolescenti e ogni volta ci sono i volti di mamme e le nonne, a cui ci si rivolge sempre con rispetto con l’appellativo “dona”.

Incontro il volto di dona Elena, senza capelli perché ha appena terminato la chemioterapia, fa dialisi e intanto non fa altro che parlare dei progetti per il suo spazio che apre ogni pomeriggio per i bambini del quartiere. Incontro dona Isabel, o ‘Vo Bel ( ‘vo è diminuivo di avò , nonna) che ha 102 anni, si emoziona cantando salmi a memoria ed è l’educatrice più anziana che ci sia, è il perno della vita di tutta la famiglia.

Incontro i volti di tante religiose in mezzo alla gente, impegnate fianco a fianco nelle comunità, come un gruppo di missionarie divertentissime catapultate qui da Timor Est. Incontro il volto di dona Irene, presidente della comunità cattolica in un gruppo di case cresciute ai margini di una discarica, che ogni giorno lotta per ottenere dal municipio i servizi pubblici, come una strada che non diventi fango dopo ogni pioggia (cioè sempre) e la raccolta dei rifiuti. E ancora Turi, Makini e Manuela, sorelle impegnate nella leadership di un quilombo, cioè una comunità immersa nella foresta che discende da un gruppo di schiavi africani fuggiti dalle piantagioni 120 anni fa: una storia continua di lotta da 6 generazioni.

Loro sono la spina dorsale di questa terra, eppure mi raccontano che le discriminazioni a livello sociale sono ancora molte, ma le rivendicazioni da parte dei movimenti sono forti e in particolare nel mese di marzo il tema è molto sentito.

Ora una parola su quello che sto facendo io, cioè concretamente molto poco di utile. L’unica cosa “concreta” in cui posso per ora dare un piccolo contributo è nella comunicazione del Centro alternativo di cultura – CAC (leggi “cachi” perché qui hanno la mania di aggiungere una “i” alle sigle o parole straniere che finiscono in consonante). Fa molto ridere perché non sono mai stato un amante di social & Co., ma c’era bisogno di quello e qualche competenza di base che ho imparato negli ultimi anni con ASCS in Italia mi sta tornando utile!

Qui i link alla pagina Instagram, Facebook e Youtube del CAC, così vedete qualcosa delle attività che facciamo: il mio lavoro per ora è fotografare, fare grafiche e postare

📍www.instagram.com/centroalternativodecultura/

📍https://web.facebook.com/cac.centroalternativodecultura?_rdc=1&_rdr

📍https://www.youtube.com/channel/UCldT8m2c75LbqP4nGPUE8WQ

Dal Parà n.6 – MARTIRI. Il suolo, la terra, quella che prendi a mani nude nell’orto con qualche lombrico in mezzo è da sempre un elemento che mi è estremamente caro e se sto per troppo tempo senza sporcarmi le mani di terra ne sento la mancanza: per fortuna che anche qui in casa c’è un piccolo orto quasi soffocato dai muri e dal cemento… ma non è di questo che volevo scrivere… Questa sera nella mia lettera ci sono due temi apparentemente molto diversi, ma entrambi intimamente legati alla terra e così collegati anche tra di loro.

Questa dell’Amazonia è una terra bagnata dal sangue di molti uomini e molte donne che hanno difeso la terra e i suoi abitanti dagli interessi di chi vede questo luogo come un supermercato di risorse da sfruttare. Nelle piccole e combattive comunità cristiane di cui è disseminata questa regione sono ricordati come martiri: il 24 marzo, giorno dell’assassinio di Oscar Romero, vescovo santo di El Salvador, ucciso perché si interessava dei poveri contro il regime di allora, ho partecipato ad una veglia dei martiri, un momento molto intenso per ricordare quanti tra gli anni ’70 e oggi sono stati uccisi per avere difeso gli interessi delle piccole comunità che vivono di agricoltura, pesca e raccolta nel Parà.

Sono padri di famiglia, religiosi e religiose che nella cui storia l’impegno politico, sociale e il vivere il Vangelo sono un tutt’uno.

Alla veglia erano presenti molte persone che sono stati testimoni della vita di queste persone: racconti davvero forti e toccanti.

Un momento però non di ricordo triste di gente morta, ma un’anticipazione di veglia pasquale: luci nella notte e chiusura con una grande e gioioso ballo circolare. La loro testimonianza dà forza a tutti i movimenti che lottano ogni giorno seguendo i loro sentieri.

Altro tipo di terra: avete presente quando si dice dei fiori che spuntano nel deserto? Ecco letteralmente quello. Un’area prima foresta poi di piantagione, poi cava di sabbia e argilla, infine deserto. Un gruppo di famiglie visionarie la compra e in 13 anni lì c’è di nuovo la foresta, con tanto di scimmie e uccelli. Quando si parla dell’uomo custode dell’ambiente: quello che hanno fatto i custodi della Ecovila Iandè, nel comune di santa Barbara del Parà è proprio aiutare la foresta a ricrescere, formando di nuovo lo strato fertile sopra la sabbia, piantando alberi che si aiutano uno con l’altro imitando la sapienza della natura. E la cosa più interessante è che non è pensato come ricostruire la foresta per se stessa e basta: con la tecnica dell’agroforesta l’ambiente è pensato per produrre cibo per l’uomo in armonia con l’ecosistema e ospita le case a basso impatto di alcune famiglie che ci vivono. Armonia tra uomo e la natura di cui fa parte.

E in più, una grande fossa scavata per estrarre la sabbia oggi si è riempita di acqua ed è un bellissimo laghetto dove fare il bagno con i pesci!

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